Genitori e Figli

I bambini sanno stare da soli?

Bambini in solitudine, da soliLa condizione esistenziale di solitudine può essere percepita dall’individuo come uno svuotamento del significato dell’esistenza, ma può al contrario essere vissuta come una fonte inesauribile di ricchezza interiore. E’ in questo senso che Agazzi (L’uomo e la solitudine) distingue tra una “solitudine di vuoto” e una “solitudine di pienezza”, considerando quest’ultima come l’unico rimedio contro la prima.

Anche il comportamento solitario, sia occasionale che costante, può assumere per l’individuo che lo manifesta molteplici significati, così come può essere mosso da motivazioni varie. Non sempre una condotta solitaria è espressione di una condizione di solitudine: un bambino che a volte, o spesso, sta da solo non è necessariamente un bambino solo o isolato.

Percezione e concettualizzazione della solitudine nei bambini

A partire dagli anni ’80 l’idea che la solitudine, nel suo significato doloroso, non appartenga al bambino viene messa in discussione, anche sulla spinta dei numerosi studi rispetto al tema dell’isolamento sociale nell’infanzia, dai quali emerge come spesso tale condizione si accompagni a sentimenti di tristezza, di disistima di sé e solitamente a stati di rifiuto o a non accettazione da parte degli altri. Varie ricerche evidenziano come, non solo la solitudine sia presente anche nell’infanzia, ma soprattutto come i bambini la percepiscano, la vivano emotivamente e la concettualizzino, parlandone in un modo molto simile all’adulto.
L’esperienza di stare solo, in realtà non necessariamente si presenta nella vita del bambino, così come nell’adulto, con un carattere di continuità e costanza, ma può, invece, essere limitata ad alcuni momenti dell’esistenza, oppure a brevi episodi nell’arco della giornata stessa e soprattutto può costituire più che l’espressione di un malessere, o di una difficoltà sul piano sociale o affettivo, il bisogno di estraniarsi dal contesto, oltre a presupporre una peculiare capacità del soggetto.

Bisogno e capacità di stare soli

Il tema del bambino che “sta da solo” può essere ribaltato, analizzando i momenti di solitudine non tanto come indicatori di disagio, da temere e da eliminare dall’esistenza dei piccoli, quanto come la manifestazione di una precisa capacità non posseduta da tutti, che permette di scoprire e di conoscere la propria vita interiore, lo sviluppo della quale sarebbe quindi auspicabile anche a partire dall’infanzia.
Varie ricerche evidenziano sempre più spesso bambini in difficoltà “soffocati” da adulti iperprotettivi e iperindulgenti, indubbiamente intrusivi, che hanno pianificato per anni le giornate dei propri figli, privandoli di quella fondamentale area di sviluppo che è data dalle esperienze di frustrazione, ma anche di riflessione personale in solitudine, condizione necessaria che permette l’accesso alla pensabilità dei bisogni, tensioni, sofferenza psichica.
Vi è una sorta di fenomeno di “riempimento del tempo” che, se da un lato può essere interpretato come il tentativo di allontanare il vuoto e l’assenza, evocanti in senso lato la morte, mediante una forma di iperattivismo, dall’altro impedisce ai bambini di apprendere e realizzare due attività psicologicamente faticose ma essenziali, vale a dire il pensare e rielaborare.
I piccoli appaiono così costretti a trascorrere il loro tempo agendo o subendo le azioni degli altri, rinunciando a quel tempo di sano silenzio in solitudine all’origine del pensiero e della scoperta di sé.
Appare dunque necessario prendere consapevolezza del bisogno del bambino di recuperare un proprio spazio mentale per pensare, per riflettere, in definitiva per scoprire la propria vita personale. Tale consapevolezza implica da parte dell’adulto la disponibilità all’ascolto, la quale a sua volta richiede di ritrovare un momento proprio liberato da quella sorta di “indaffaramento” che sembra contraddistinguere l’organizzazione della sua vita.
Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista infantile tra i più noti del secolo precedente, è stato tra i primi a porre l’attenzione sulla capacità di stare solo da parte del bambino. Winnicott ha individuato nella precarietà e vulnerabilità umana il vero potenziale per entrare in relazione con gli altri, per bisogno e per desiderio e non solo per una gratificazione autonoma delle proprie esigenze pulsionali.
Come per Melanie Klein anche per Winnicott la condizione di solitudine si origina nell’infanzia; egli però non individua all’interno di questo processo, seppure necessario, prevalentemente uno stato di sofferenza, bensì un’opportunità da cui far emergere una precisa capacità, prima del bambino e poi dell’adulto. Egli considerava l’attività ludica come un momento elettivo per esprimere la capacità di rivolgersi al proprio mondo interno.
E’ indubbio che esista una solitudine (legata a determinate cause e situazioni) che arreca sofferenza e disagio, ma in in questo ambito parliamo di un diverso tipo di solitudine, che la psicosintesi, in accordo con quanto evidenziato da D. Winnicott, considera fonte preziosa e necessaria per entrare realmente in contatto con se stessi.

Autore

Elisabetta Marra

Elisabetta Marra

Psicologa e Psicoterapeuta specializzata in Terapia psicosintetica, si occupa dei disturbi d'ansia, attacchi di panico, disturbi dell'umore, disagio esistenziale, lutto, autostima.

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